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AL BALLO DELLE TRICOTEUSES: UN POST SCORRETTO SU PICCHIONI

Le tricoteuses davanti alla ghigliottina (dal film "La primula rossa" di Harold Young, 1934)
Vengo a seppellire Rolando Picchioni, non a lodarlo. Il male che gli uomini fanno gli sopravvive; il bene è spesso sepolto con essi. E così sia di Rolando Picchioni. La procura della Repubblica sospetta che si sia macchiato del reato di peculato. Se è stato così, è una grave colpa, e Rolando Picchioni la sconterà gravemente. Io lo conoscevo bene, e nella mia ingenuità lo consideravo un uomo difficile e spigoloso, ma innamorato del suo lavoro, consacrato alla causa del Salone del Libro. Ma la procura e tanti altri a Torino oggi dicono che era un disonesto, e la procura e tanti altri a Torino avranno le loro buone ragioni. Quando il Salone del Libro annaspava nelle difficoltà finanziarie, o sotto le tempeste della politica, Rolando Picchioni lottava come una furia, e andava di porta in porta a cercare finanziamenti e sostegni. Di ben più dura indifferenza dovrebbe essere fatta la disonestà. Pure, la procura e tanti altri a Torino dicono che Picchioni era un disonesto, e la procura e tanti altri a Torino avranno le loro buone ragioni.
Ok, potrei continuare con il monologo di Marc'Antonio. Però c'è qualcosa che neppure il genio tragico di Shakespeare avrebbe saputo mettere in scena: la triste processione, che ho visto sfilare in questi anni, di grandi protagonisti della cultura torinese condannati al pubblico ludibrio, accusati di crimini infami, spernacchiati dalle tricoteuses di giornata, da quelli "che è tutto un magna magna", dai genii incompresi e muy conocidos en su casa a la hora de comer, dai pasdaran della meritocrazia senza alcun merito, dai politici insofferenti a chiunque per ragioni d'igiene e dignità si rifiuti di baciargli il culo.La pittoresca folla, per intederci, che adesso balla sulla tomba di Picchioni e per il Salone del Libro pretende "discontinuità". Che detta così può voler dire tantissime cose: compreso uno strapuntino per qualche servo sciocco e ubbiediente.

Chi sbaglia paga. E chi non sbaglia paga doppio

Questo non significa schierarsi - in vista del circo massimo che si scatenerà - nella curva degli ultrà innocentisti. Picchioni mi è simpatico, non è un segreto. L'ho sempre considerto caparbio, moschino, a volte un po' stronzo, ma onesto, colto e appassionato. E adoravo farlo incazzare. Ma con lui, come con ogni altro attore del simpatico teatrino culturale torinese, mi sono sempre attenuto ai miei doveri di giornalista: osservatore, non tifoso. Credo però che i meriti di chi si è speso per assolvere all'incarico che la comunità gli ha affidato debbano essere riconosciuti, così come è indispensabile che paghi per le colpe di cui eventualmente si è macchiato. E mi ostino ad aver fiducia nella giustizia e nei giudici. Per cui se Picchioni ha sbagliato, sono certo che pagherà. Dubito invece che, semmai dovesse andare assolto da ogni accusa, qualcuno si degnerà di scusarsi. Siamo un popolo che non rispetta le sentenze, e in compenso nutre una cieca fiducia negli avvisi di garanzia come certificazione inoppugnabile di colpevolezza.

Condannati e assolti

La storia del passato illumina il futuro: e la storia del (recente) passato della cultura torinese ci mostra, accanto al condannato - in secondo grado - Giuliano Soria (ormai il "cattivo necessario" per antonomasia), una sequela di assolti nelle aule dei tribunali, e cionondimeno crocefissi per sempre sul golgota dell'opinione pubblica. Se n'è ricordato anche il direttore del Salone, Ernesto Ferrero, in un'appassionata difesa di Picchioni che gli fa onore nel paesaccio dei maramaldi che accorrono a sostenere il vincitore e a infierire sul vinto.
Vi cito un paio di casi, premettendo che non considero le sentenze come la Verità rivelata. Ma sono sentenze, verità processuale. E in quanto tali, valgono.
1) Alberto Vanelli, trascinato in tribunale nel tripudio delle tricoteuses con l'accusa di abuso d'ufficio per la gestione di alcune mostre allestite nel complesso delle Ogr per le celebrazioni di Italia 150; e assolto con formula piena, e con scarso riscontro mediatico.
2) Anna Martina, alta dirigente comunale sputtanata con vasta eco su ogni mezzo d'informazione nell'ambito di un'inchiesta definita "Parentopoli" con il classico sussulto di originalità giornalistica. Inchiesta poi archiviata nella quasi totale indifferenza dei media.
E mi torna alla mente un altro grand commis di valore, Paolo Verri, che ritengo si sia sottratto a un analogo destino solo perché ha avuto il buon senso di andarsene altrove in cerca di miglior fortuna.
Fortuna peraltro trovata. Perché qui stiamo parlando di professionisti di prim'ordine. Quel tipo di professionisti di cui Torino ritiene ormai di non aver più bisogno, preferendo i servigi di innocui gregari.

Il dilemma della politica


Va così. Come a Bisanzio il sistema istituzionale di successione al trono era l'omicidio, così a Torino le uscite di scena dei grand commis della cultura si gestiscono con crescente frequenza a mezzo carabinieri.
Ma da ciò discende un allarmante corollario. Poiché tali "grand commis" sono regolarmente scelti dalla politica, delle due l'una:
o i  politici sono dei perfetti buoni a nulla che manco sanno scegliere collaboratori o dirigenti validi e onesti;
oppure i politici sono complici, piazzano il sodale che gli comoda e se ne sbarazzano quando non serve più o - dio non voglia! - alza la cresta.
Scegliete voi la versione che più vi soddisfa. A Chinatown c'è libertà d'opinione. Purché non si sappia in giro.

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