Gipo Farassino non c’è più. Se n’è andato ieri mattina. A
marzo avrebbe compiuto ottant’anni. Nell’ultima alba gli era vicina,
nella casa torinese, la figlia Valentina, il solo grande amore che gli
restava dopo che il destino gli aveva rubato prima
l’altra figlia, Caterina, e poi la moglie Lia. Gipo aveva reagito a quei
colpi feroci da gladiatore qual era. Aveva creato una fondazione
benefica in memoria di Caterina. Ed era tornato sul palcoscenico, e
nell’abbraccio del pubblico aveva ritrovato la voglia
di vivere. Ancora pochi mesi fa, quando già la malattia lo consumava,
mi raccontava di nuovi progetti, di nuove sfide.
Ecco, il più è detto. Non è facile scrivere della morte di un uomo
a cui volevo un bene profondo. Ma un’ora fa una persona cara mi ha
mandato un sms che mi ha incoraggiato: “Un amico che se ne va così
lontano val bene un articolo…”. E’ vero. Gipo è andato
lontano, e chissà come gli mancherà la sua Torino. Ricordate? “Questa
mia città che strozza il canto in gola, ti spinge ad andar via…”. Era
felice, Gipo, che Torino non fosse più quella. Lui cantava l’anima di
Torino: e adesso che quell’anima è diventata a
colori, se la godeva con l’entusiasmo dei ragazzi. Io, in tanti anni
d’amicizia, non l’ho mai visto vecchio.
Quando muore un artista gli articolisti ne elencano i successi, ne
descrivono la carriera. Mi pare così inutile, in tempi di Wikipedia. E
ancor più inutile per Gipo, la cui carriera di chansonnier e attore è
scritta nella memoria di ogni piemontese. Dovrei
citarvi le canzoni che fanno la nostra identità – “Matilde Pellissero”,
“Sangon Blues”, “’L 6 ‘d via Cuni”… - ora ironiche, ora soffuse di
malinconia, e le sue prove teatrali e cinematografiche con registi come
Scaglione e Edmo Fenoglio, e le esperienze televisive
tra cui un memorabile “Travet” al fianco di Ileana Ghione… E dovrei
anche parlare della sua decisione, negli Anni Novanta, di darsi alla
politica, con la Lega, arrivando al seggio di europarlamentare e quindi a
un assessorato con Ghigo. Fu una parentesi: Gipo
la chiuse quando capì che non era il suo mondo. Lui diceva ciò che
pensava, e pensava ciò che diceva. Non poteva funzionare. Però una cosa
voglio scriverla, del Farassino politico: ne ho sempre ammirato
l’onestà. E mi divertiva sapere – me l’aveva rivelato
sua figlia Caterina, magnifica fotografa del rock – che sulla sua
scrivania di assessore leghista teneva una foto degli Africa Unite. La
cosa però non mi sembrava stravagante: erano musicisti che, come lui,
avevano trovato anche nel piemontese una lingua per
far canzoni e poesia.
Fu Caterina ad avvicinare il padre ai suoi amici rockettari. Negli
ultimi tempi Gipo si faceva accompagnare nei concerti da giovani
talenti che lo stimavano e lo consideravano un nume tutelare. Per i
Subsonica, e per tanti altri, era un’icona; ma anche
un collega. Lo invitavano nei club underground, ai festival
alternativi. Un mondo che amò, riamato. Perché l’esistenza di Gipo
Farassino è stata piena d’amore. Amore per la famiglia; per il
palcoscenico; e per Torino. La Torino delle barriere, la Torino povera
e dignitosa del dopoguerra, la Torino trasformata dalla grande
immigrazione. La Torino delle sue canzoni, e dei suoi racconti. Racconti
che qualche anno fa gli chiesi di scrivere per “TorinoSette”, il
settimanale della “Stampa”. Era restìo, imbarazzato: lo
convinsi, e mi ricambiò con storie meravigliose. Storie che divennero
anche un libro, “Viaggiatori paganti”.
Una storia bellissima di Gipo me la raccontò invece Fabrizio De
André: Farassino, all’epoca giovane e comunista, ospita a casa sua – con
conseguenze deprecabili - un quasi esordiente De André, ubriaco
fradicio dopo un concerto alla Festa dell’Unità. E’
una storia che non potrò dimenticare perché è una bella storia; ed è la
storia di due persone che mi porto dentro.
Mentre scrivo, non faccio che pensare agli attimi trascorsi con
Gipo. Lo rivedo il giorno dei funerali di Caterina - il volto da duro di
barriera rigato di lacrime rare - ricevere con uguale, sconsolata
riconoscenza l’abbraccio leghista di Bossi e quello
subsonico di Max Casacci. Lo rivedo una sera al teatro Erba, per uno
spettacolo importante, il suo ritorno alle scene dopo la tragedia; ed è
felice e circondato d’affetti. Lo rivedo una domenica d’estate, al bar
della piscina di Nizza Monferrato, mentre ci
arrivano le risate dei bambini che giocano in acqua, e lui mastica il
toscano e ha gli occhi allegri perché gli piacciono i bambini. Gipo
aveva casa ad Agliano, e capitava spesso dalle mie parti: una volta
andammo a cena in un ristorante fra i campi e poi
venne su da me, in collina, e rimanemmo a goderci il fresco della notte
sotto il portico, e lui scherzava con mia madre, “signora – le diceva –
siamo quasi coscritti, ma lei è giovanissima”, e mia madre rideva. Era
gentile, galante, buono. Un poeta sensibile
e un uomo semplice. Mi mancherà finché non verrà il tempo per
rincontrarci.
Grazie Gabriele, è uno splendido ricordo...ci mancherà e molto.
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